Parlare di apprendistato fa venire in mente ragazzi alle prime armi, contratti provvisori e un mondo del lavoro che offre poco e pretende tanto. Ma nel 2025 questa visione è ormai superata. L’apprendistato non è più una scorciatoia per pagare meno i dipendenti o una parentesi di passaggio. È diventato un ponte reale tra formazione e occupazione, con caratteristiche e opportunità spesso sottovalutate.
Chi pensa che sia riservato solo ai giovanissimi o a ruoli tecnici si sbaglia. La normativa ha ampliato i confini, permettendo anche a under 30 già diplomati o laureati di accedere a percorsi strutturati, con tutele crescenti e possibilità di crescita reale.
Il problema è che queste informazioni non sempre arrivano dove dovrebbero. Le scuole ne parlano poco. I centri per l’impiego spesso si limitano a elenchi burocratici. Le aziende, dal canto loro, raramente valorizzano questa forma contrattuale nel modo giusto. E così, molti non sanno nemmeno cosa preveda davvero un contratto di apprendistato oggi.
Tre livelli, un solo obiettivo: formarti lavorando
Nel 2025 esistono ancora le tre tipologie principali di apprendistato, ma con alcune evoluzioni interessanti:
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Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale
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Apprendistato professionalizzante
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Apprendistato di alta formazione e ricerca
Il primo è pensato per i più giovani (tra i 15 e i 25 anni), che vogliono ottenere un titolo di studio lavorando. È molto usato nei percorsi IeFP o negli istituti tecnici superiori, dove si alternano ore in aula e ore in azienda. Il secondo è il più diffuso, rivolto a chi vuole imparare un mestiere sul campo, con un contratto vero, ma anche con ore di formazione obbligatoria, spesso online o presso enti accreditati.
Il terzo è il meno conosciuto ma forse il più rivoluzionario: permette a laureandi, dottorandi o giovani ricercatori di entrare nelle aziende durante il percorso universitario, creando sinergie tra mondo accademico e produttivo. Non è un tirocinio. È un contratto a tutti gli effetti, con contributi, ferie, TFR e – se va bene – una conferma al termine del percorso.
Quello che non ti dicono (ma dovresti sapere)
Al di là delle definizioni, l’apprendistato è spesso trattato come un contratto di serie B. Ma la realtà è diversa. Un apprendista, oggi, ha:
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una retribuzione crescente (che parte dal 60-70% e sale ogni anno);
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un tutor aziendale obbligatorio, che deve seguirlo nel percorso;
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formazione finanziata, anche su competenze trasversali come la comunicazione, l’uso dei software, la sicurezza sul lavoro.
Eppure, molte aziende ignorano questi obblighi. Alcune lo vedono solo come un modo per risparmiare sul costo del lavoro. Così, non formano, non seguono, non valorizzano. Ed è lì che l’apprendistato perde senso, diventando un’occasione mancata.
Chi si affaccia a questo tipo di contratto dovrebbe pretendere chiarezza. Sapere quante ore di formazione sono previste, come verranno svolte, quali competenze saranno riconosciute alla fine. L’apprendistato, se fatto bene, può valere quanto un master. Ma se fatto male, rischia di lasciare poco e niente, oltre alla frustrazione.
Un altro aspetto spesso trascurato riguarda la valutazione finale. Al termine del percorso, soprattutto per gli apprendistati duali o di alta formazione, l’azienda dovrebbe redigere un bilancio delle competenze acquisite. È un passaggio importante, che può fare la differenza anche in futuro, in caso di selezioni, concorsi o percorsi formativi successivi.
Dove trovare le informazioni giuste
Orientarsi in mezzo a tutte queste opzioni non è facile. Ma oggi esistono strumenti più accessibili rispetto al passato. Le Regioni pubblicano bandi e portali informativi aggiornati, i centri per l’impiego digitali stanno migliorando, e ci sono realtà territoriali – pubbliche e private – che offrono supporto personalizzato, anche per compilare il piano formativo individuale.
Alcune scuole superiori e CFP iniziano a collaborare stabilmente con imprese del territorio, creando micro-ecosistemi di apprendistato che funzionano davvero. In questi contesti, i ragazzi non sono “prestati” all’azienda per qualche ora, ma partecipano attivamente alla vita produttiva, imparando davvero un mestiere.
Chi invece ha già finito la scuola e vuole capire se può rientrare nel sistema come apprendista professionalizzante, deve verificare se rientra nei limiti di età (fino a 29 anni compiuti) e cercare offerte di lavoro che specifichino la disponibilità a questo tipo di contratto.
Per i più curiosi, anche alcuni enti di formazione accreditati (e non solo pubblici) pubblicano guide pratiche o offrono incontri online gratuiti. Basta cercare con le parole giuste, e non fermarsi alla prima definizione trovata su Google.
L’apprendistato non è un favore: è un diritto
Nel racconto comune, chi accetta un apprendistato sembra dover ringraziare. Come se fosse un compromesso. Ma l’apprendistato è un diritto contrattuale, che unisce lavoro e formazione. Dovrebbe essere vissuto non come una concessione, ma come un investimento reciproco: l’azienda forma, il lavoratore cresce, entrambi guadagnano.
Se lo si guarda con occhi diversi, l’apprendistato può cambiare davvero il modo in cui si entra nel mondo del lavoro. Non come “novellini” da sopportare, ma come giovani professionisti in formazione. Il cambiamento culturale, però, inizia anche da qui: dalle parole che scegliamo, dalle domande che facciamo, dalle aspettative che coltiviamo.
Perché sapere cosa si ha diritto di imparare è la prima forma di consapevolezza professionale.